lunedì 10 marzo 2008

L'anatra dal collo rosa e il lama tibetano

Era il 10 Marzo del 1994. Un tiepido giovedì pomeriggio a vagabondare senza meta. 

Con i negozi chiusi, i portici di Bologna erano meno affollati del solito e il passo, senza intoppi, era allegramente disinvolto. Anche i pensieri fluivano vivaci ma non mi riusciva di arrivare a una conclusione accettabile. Quelle casualità che da qualche tempo mi piombavano all'improvviso, è vero,  un po' mi divertivano ma cominciavano anche a provocarmi una certa suggestione. Eppure l’ulteriore prova di questo caso ricorrente ce l'avevo in mano. Questa volta si trattava di un libro, trovato appunto per caso su una bancarella, con quello strano titolo che per niente avrebbe dovuto interessarmi: "Alla ricerca dell'anatra dal collo rosa". 

Ecco, io non so perchè raccolsi proprio quel volumetto, ma bastò una rapida occhiata che, ancora una volta, si era accesa quella morbosa curiosità che ormai conoscevo bene. Succedeva appena coglievo un qualche riferimento  all'oriente himalayano. Quel libro era un romanzo dove si raccontava la storia di un ornitologo che vagava tra le valli del Sikkim alla ricerca di una specie volatile ormai estinta, un'anatra con il collo e parte della testa di un delicato color di rosa. Pochi mesi prima ero stato in Nepal. Un viaggio di puro svago per visitare luoghi di miti giovanili che tanto avevano attratto la generazione immediatamente prima della mia. Ero rimasto affascinato da quei posti. Sarà stata l'imponenza delle montagne, sarà stata l'aria di mistica spiritualità sia induista che buddista, ma appena mi capitava qualsiasi cosa che richiamasse quei luoghi, mi lasciavo completamente rapire.

Ero assorto nel girovagante pomeriggio cercando un'improbabile conclusione quando, proprio davanti al portone del palazzo dove ha sede la Provincia, un manifesto appuntato su una bacheca attirò la mia attenzione. "Commemorazione della rivolta di Lhasa del 1959" il titolo campeggiava a caratteri cubitali e sotto, più in piccolo, continuava con la specifica "Conferenza del lama tibetano Geshe Ciampa Gyatso. Inizio ore 16.30.

Con un riflesso automatico, la mano corse subito a spostare il polsino della camicia per cercare un orologio che non c'era e che da tempo non portavo più. Mi avviai nell'ampio cortile e, con decisione, mi precipitai verso la scalinata seguendo l'indicazione dell'usciere: "La conferenza sta per iniziare su al primo piano nella Sala dello Zodiaco".

Entrai nella grande sala sorvolando con lo sguardo i preziosi decori architettonici e artistici, gli affreschi, le cornici e gli stucchi sicuramente di gran pregio ma che in quel momento non erano oggetto del mio interesse.

Andai subito a individuare dietro al tavolo dei conferenzieri un ometto piccolo vestito di color zafferano e avvolto nel bordeaux del suo tipico abito monacale. Era lui Geshe Ciampa Gyatso lama tibetano.

La testa rasata di fresco rifletteva la luce dei lampadari, un dolce sorriso che scopriva denti belli grandi era rivolto ogni tanto verso persone che sicuramente conosceva e che il suo sguardo veloce coglieva con rapide occhiate ora a destra ora a sinistra. 

E adesso? Perchè sorride proprio a me? Io non l'ho mai visto. 

Mi guardai intorno per controllare se qualcuno rispondesse amichevole al suo sorriso. Nessuno. Il destinatario  della sua attenzione ero proprio io.

Intanto il moderatore percorreva per sommi capi l'evento storico tema della conferenza.

A Lhasa, capitale del Tibet, si era sparsa la voce che l'esercito cinese, che già aveva provveduto a intensificare massicciamente la sua presenza invasiva, voleva rapire il giovanissimo XIV Dalai Lama. Il popolo si era organizzato spontaneamente attorno alla residenza a difesa della sua guida politica e spirituale. La manifestazione sfociò in una rivolta alla quale l'esercito occupante cinese rispose con inaudita violenza repressiva. Il dato accertato e documentato fu di 87.000 morti tra la popolazione tibetana. L'esercito cinese aveva iniziato la sua campagna in Tibet già 10 anni prima ma quel triste giorno del 1959 segnava l'abbattersi di una tragedia su di un popolo pacifico e inerme. Quel 10 Marzo segnò l'inizio di un genocidio etnico e culturale che ancora oggi si protrae senza tregua con oltre un milione di tibetani uccisi, migliaia di monasteri completamente distrutti in nome della "Rivoluzione Culturale" di Mao.

E di lì a poco Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet, sarebbe fuggito in esilio in India.

Iniziò così la diaspora tibetana.

Il moderatore, con spontanea e rispettosa referenza, introduce e presenta Geshe Ciampa Gyatso, lama residente dell'Istituto Lama Tsong Khapa di Pomaia (PI).

Il saluto del monaco è cordiale e in un inglese approssimativo saluta i presenti, e comincia il suo racconto di profugo tibetano anche lui rifugiato in India. La sua voce emette a volte un tono leggermente più acuto ma non tradisce troppa emozione. Parla delle sue disavventure, dei tanti monaci che hanno fatto la sua stessa scelta di scappare e parla anche delle tante persone che sono state barbaramente uccise. Parla della sua famiglia. Fratelli che non ci sono più, parenti che non ci sono più, genitori che non ci sono più e che avevano l'unica colpa di non volere l'invasore cinese.

La sua voce non tradisce dispiacere anzi, un sorriso gli illumina continuamente il viso.

Ma che cosa avrà mai da ridere questo monaco? Gli hanno ammazzato la famiglia, parenti e amici e lui se la ride?

Questo pensiero palesava la mia focosa origine calabra. Dalle mie parti o poco lontano cose di questo tipo sono motivo di odio secolare.

E questo piccolo ometto parlava di compassione? Compassione verso quegli stessi carnefici responsabili di tante atrocità, verso la sua famiglia, i suoi amici e il suo popolo?

Ero completamente spiazzato. Ma più seguivo il suo discorso più mi rendevo conto di come, un approccio così semplice basato sulla tolleranza, poteva essere davvero una via risolutiva per realizzare effettivamente la pacifica convivenza fra tutti gli esseri viventi.

Più seguivo il suo discorso, più apprezzavo aspetti di una cultura sì lontana ma di una saggezza disarmante.

Alla fine della conferenza sentii esprimere malumori e dispiaceri e manifestazioni di solidarietà alla causa tibetana. Sentii qualche proposta buttata lì quasi per caso su cosa si poteva fare perché la gente sapesse della tragedia tibetana. E decisi. Mi sarei occupato di Tibet, avrei dato un mio contributo a favore di questo popolo e della sua cultura messa a rischio di estinzione. 

La sera stessa, mentre ero immerso nella lettura del libro "Alla ricerca dell'anatra dal collo rosa" tornai a pensare al lama tibetano e alle sue parole che invitavano ad aiutare in qualunque modo la sua gente. Chiusi il libro e cominciai a scrivere il progetto di una serie di eventi che potevo organizzare. Stava nascendo "Help Tibet", questo era il titolo del progetto, che raggruppava mostre, conferenze, concerti e spettacoli teatrali che da lì a poco si sarebbero realizzati. Avevo cominciato a essere Giovanni, quello che si occupa di Tibet, Giovanni Tibet, Giotibet. 

Ho ancora quel libro comprato il 10 Marzo del ’94. Mentre quel lama tibetano, Geshe Ciampa Gyatso, che poi diventò anche mio maestro, non c'è più. Per dirla alla tibetana, ha lasciato il suo corpo alla fine di Novembre scorso. I suoi insegnamenti però continuano a dare risultati. 
Anche Giotibet è un suo risultato. 

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bella storia Gio, veramente toccante. Mette in evidenza ancora una volta l'insensibilità generalizzata verso chi vive, anzi sopravvive, in condizioni inimmaginabili. Troppo spesso dimentichiamo chi soffre, quando basterebbe, per cominciare, rivolgere ogni tanto un pensiero di solidarietà verso questi popoli. Ma stai tranquillo che la Cina verrà bacchettata perché rompe i coglioni alle "superpotenze economiche", e non per la sua politica intollerante e totalitarista.